I veneti liberi vincono.



QUANDO SIAMO LIBERI, VINCIAMO. 

È giunto il tempo dei Veneti liberi.

Il confronto tra la venetizzazione del Brasile e la marginalizzazione del Veneto in Italia rivela uno dei più grandi paradossi della storia moderna: la stessa cultura che, in condizioni di libera competizione, diventa naturalmente egemone, nel proprio Paese viene sistematicamente esclusa dai centri di potere.
La chiave di questo paradosso sta in cinque anni decisivi: dal 1861 al 1866.


I cinque anni che cambiarono tutto (1861-1866)

In quegli anni, mentre il Veneto era ancora sotto dominio austriaco, si formò l’intero apparato statale destinato a governare l’Italia per oltre un secolo e mezzo:

  • Burocrazia: costruita con piemontesi, toscani e napoletani
  • Classe dirigente: formata senza alcun contributo veneto
  • Logiche di potere: radicate in tradizioni estranee alla nostra
  • Centri decisionali: Roma, Torino, Firenze – mai in Veneto
  • Alleanze politiche: saldamente fissate sull’asse Nord-Ovest/Sud, escludendo il Nord-Est

Nel 1859 il Regno Lombardo-Veneto era la regione più ricca e sviluppata della penisola. Nel 1866, appena entrato nell’Italia unita, il Veneto era già relegato a ruolo periferico. In soli sette anni: dal vertice economico alla totale irrilevanza politica.


Due modelli incompatibili

Lo Stato italiano nacque con un DNA essenzialmente centro-meridionale e anti-veneto, ereditando una mentalità burocratico-assistenziale:

  • Piemonte: tradizione burocratico-militare sabauda, gerarchie rigide
  • Toscana: élite granducali e intellettuali da rendita di posizione
  • Sud: nobiltà e borghesia formatesi nel parassitismo borbonico
  • Roma: Curia ecclesiastica e burocrazia pontificia, lontane dall’economia produttiva

Di fronte a questo impianto, la tradizione veneta era l’opposto:

  • Economia di mercato e commercio internazionale
  • Imprenditorialità diffusa e artigianato innovativo
  • Autogoverno municipale e responsabilità diretta dei cittadini
  • Meritocrazia basata sui risultati, non sulle connessioni politiche
  • Pragmatismo operativo anziché ideologie astratte

Due visioni dello Stato inconciliabili: per il Centro-Sud, il posto fisso come obiettivo supremo; per il Veneto, lo Stato come servizio efficiente ai cittadini.


L’esclusione strutturale

Quando i veneti entrarono nello Stato unitario, i posti chiave erano già occupati:

  • Ministeri in mano a piemontesi e toscani
  • Magistratura dominata da centro-italiani e meridionali
  • Forze armate sotto egemonia piemontese
  • Università dirette da professori non-veneti
  • Sistema bancario controllato da Roma e Milano
  • Editoria e cultura monopolizzate da élite consolidate

Il risultato: centralismo burocratico opposto alla cultura municipale veneta, tassazione predatoria, legalismo formale, clientelismo e assistenzialismo in contrasto con l’etica del lavoro.


Le alleanze anti-venete

Il Meridione, sconfitto militarmente, vinse politicamente stringendo un’alleanza con:

  • Piemonte: bisognoso del consenso meridionale per governare
  • Chiesa cattolica: timorosa dell’anticlericalismo veneto
  • Francia: interessata a contenere l’influenza austriaca
  • Intellettuali toscani: fornitori di legittimazione culturale

Milano e Torino, invece di sostenere un Nord-Est economicamente affine, preferirono Roma e il Sud, rinunciando al federalismo in cambio del controllo industriale. Un tradimento geopolitico che isolò il Veneto.


Un sistema che si auto-riproduce

In Italia, i veneti non potevano prevalere per cinque ragioni strutturali:

  1. Minoranza numerica permanente
  2. Isolamento geografico
  3. Incompatibilità di modelli economici
  4. Entrata tardiva nel sistema
  5. Mancanza di alleati naturali

E il sistema si perpetuava: scuole e università formavano dipendenti pubblici, non imprenditori; media e concorsi pubblici premiavano il conformismo, non l’innovazione.


Il confronto con Germania e Brasile

In un sistema federale come quello tedesco, il Veneto sarebbe stato una “Baviera del Nord-Est”: autogoverno garantito, controllo delle risorse, tutela costituzionale di lingua e cultura, cooperazione tra pari.
L’Italia scelse invece il modello centralista francese: prefetture come braccio del potere centrale, uniformazione culturale e anti-municipalismo.

In Brasile, la competizione era libera: nessun modello preesistente da subire, comunità costruite dal basso, successo economico che portava prestigio politico. In Italia, regole già scritte contro i veneti: il successo economico serviva solo a giustificare più tasse.


Due profezie opposte

Italia: circolo vizioso dell’esclusione – fuori dal potere, concentrati sull’economia, produttivi ma irrilevanti politicamente, tassati, sfruttati e bloccati in una marginalità permanente.
Brasile: circolo virtuoso dell’inclusione – spazi di autogoverno, istituzioni efficienti, leadership naturale, controllo diretto delle risorse, crescita politica e culturale.


La lezione della storia

I cinque anni dal 1861 al 1866 hanno deciso il destino politico dell’Italia: un’Italia costruita senza i veneti, contro i veneti.
In Brasile, dal 1866, i veneti hanno potuto scrivere le regole e dimostrare cosa accade quando sono liberi: vincono.

Il problema non è mai stata una debolezza della nostra cultura, ma un sistema italiano deliberatamente costruito per escluderla, perché la sua affermazione metterebbe in crisi l’intero impianto burocratico-assistenziale dello Stato unitario.

Quando siamo liberi, vinciamo.
Il tempo di ritornare liberi è adesso.


Nicola Busin 

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